Non è capire la realtà che alimenta la mia inquietudine, è più che altro capire perché non riesco a farne
parte, essere un tutt'uno con essa.
Mi sento “a l t r o” dal mondo, come un esule, o per dirla con una canzone
di Sting, “I'm an englishman in New York”: stessi significanti, significati
diversi.
Non voglio nemmeno accanirmi nell'alimentare questo divario; vorrei, invece, colmarlo, costruire un ponte per percorrerlo avanti e indietro
continuamente, fino a quando lo percepirò come un brevissimo, quasi automatico,
tragitto.
Forse è per questo che camminare mi dà sollievo, a volte quasi un senso
di liberazione.
C a m m i n a r e fa bene, anche se la strada è dritta, asfaltata e sai già che
c’è un inizio ed una fine e che la fine diventa l’inizio e l’inizio, la fine.
Ho deciso che camminerò ancora per un po’, finché non arriverà il gran
caldo, con la sua afa e gli insetti che ti si appiccicano addosso. E quando
sarà, allora prenderò la bici, per sentire un po’ d’a r i a , per andare e tornare,
come fanno le lancette d’un orologio, come si fa quando si viaggia.
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